Questo è il teatro del piccolo cupido
Nessun freddo repentino d'autunno
sgomenta questo petto tropicale
Emily Dickinson
Nel settimo libro dei Miserabili, Victor Hugo si ferma a riflettere sul gergo dei diseredati, dei reietti e dei criminali. Mancano ancora cinquanta anni alle manfrine sul lunfardo e più di cento a quelle dello strutturalismo, ma Hugo già intuisce che più che parlare, si è parlati dal linguaggio: “il gergo è due furti: la lingua e il popolo”. La lingua non domina il senso, pur se determina, “mette in scena”, il soggetto che lo persegue, e il senso anima di vita la parola, pur se la parola cade immediatamente nell’ordine morto della lingua. La vitalità di coloro che, umiliati dalla società e colpiti dalle leggi degli uomini, si “sono organizzati nella disorganizzazione”, è la forza biologica che incessantemente colma la parola di senso: “i vocaboli sono costantemente in fuga, come gli uomini che li adoperano”. Il gergo è dunque una scappatoia, provvisoriamente efficace e sempre fantasiosa, dalla macchina modellatrice, e “fa più strada il gergo in dieci anni che la lingua in dieci secoli”. Molti sono gli esempi citati dallo scrittore, “fermarsi è compito dello scandaglio, non dello scandagliatore”, ma quello più formidabile ce lo fornisce tramite il bracconiere occasionale Survincent, condannato con lettre de cachet, per una lepre rubata al re, a sei mesi di gogna nel carcere di Chatelet. E’ questo uno stanzone a tre metri sotto il livello stradale, umido e irrespirabile. Nessuna apertura tranne la porta inchiavardata. Per terra, due palmi di fango e tre decenni di escrementi; sul soffitto, una trave da cui pendono le catene con i collari, studiate in modo da non permettere ai detenuti di piegare le gambe. Chi ce la fa, dorme in piedi, a intermittenze di pochi minuti; la maggior parte invece si abbandona all’impiccagione rateale. Una volta al giorno, la porta si apre e pezzi di pane buio sono lanciati ai prigionieri; seguono le manovre pedonali per riuscire prima a trovare nel fango e poi portarsi alla bocca il cibo. Ebbene, in questo luogo “verosimile all’inferno”, gli sventurati cantano: il più delle volte sono canzonacce oscene, o inni religiosi adeguatamente modificati (ricordate “Jesus Christ never failed me yet” registrato dal vivo a un clochard da Gavin Bryars?), le cui parole non stentiamo a immaginare gonfie di un odio grandioso e irreparabile. Ecco la musica da camera dei Miserabili, il loro salotto buono, il pied-à-terre dei bisnonni dell’underground. Survincent invece si oppone a tale conformismo culturale e per sei mesi intona una sola canzone: “Icicaille est le théâtre du pétit dardant”, questo è il teatro del piccolo cupido: il grand-guignol delle catene, del potere, della violenza, in una parola della realtà, cede dunque il passo alla comédie larmoyante della tenerezza nonostante tutto? Venite a scoprirlo alla Scuola Tangueros, che riapre oggi nello splendore di un pavimento perlomeno sgombro. Il suo tango sapiente e romantico è la forza biologica che colma il gesto umano a due di senso e bellezza, che può finalmente fare dei nostri petti tropicali un teatro dardeggiante.
Marco Castellani
Tangueros Newsletter 51, settembre 2006
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